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Cortina

Riflessioni enoiche ad alta quota dal summit VinoVip 2024

Nell'appuntamento che ricorre ogni due anni a Cortina, il tema della 14esima edizione è stato la "Resistenza", ossia la resilienza del settore vinicolo alle crisi che stanno coinvolgendo il mercato globale.

La regina delle Dolomiti, nonché sede delle prossime Olimpiadi invernali, ha ospitato per la quattordicesima edizione VinoVip Cortina 2024, lo stimolante summit di due giorni con 60 tra le più rinomate aziende vitivinicole italiane del calibro di Antinori, Argiolas, Berluccchi, Castello del Terriccio, Lunae, Lungarotti, Nino Negri, Nino Franco, Pio Cesare, Planeta, Poggio al Tesoro, Tenuta San Guido, Santa Margherita, Santadi, Tedeschi, Terlano, Velenosi, Zenato. A queste e altre presenze enoiche, si è aggiunto un parterre di esperti del settore che ha dato vita a un networking dove la comunicazione, il giornalismo, la produzione e la commercializzazione si sono incontrati non soltanto per eccellenti assaggi “ad alta quota”, nel quadro abbacinate delle vette ampezzane, ma soprattutto per approfondire tematiche dell’odierna cultura enologica.

Il filo conduttore dell’evento ha avuto come espressione principale la “Resistenza!” o, se vogliamo, la resilienza del settore vinicolo, come hanno spiegato gli stessi organizzatori: «Resistenza economica alla crisi dei mercati e ai nuovi modelli di consumo, sociale e culturale al vento neo-proibizionista che giunge da alcuni Paesi e ambientale nei confronti del cambiamento climatico». Nell’intervento dal titolo “Battaglia culturale, battaglia di civiltà”, Luigi Moio, presidente OIV, nonché professore di enologia all’Università degli studi di Napoli Federico II,  ha messo in evidenza le strategie migliori per provare a contrastare questa politica di fondo innanzitutto cercando di fondere la viticoltura con l’enologia, poiché per fare vino occorre possedere delle precise competenze agrarie: «Il vino è una bevanda esclusiva e unica, ma rimane, in tutto e per tutto, un atto agricolo; rappresenta la parte intellettuale del pasto ed è un piacere straordinario con un suo piccolo particolare, l’alcol, che va ovviamente gestito, ma che descrive al contempo la sua stessa forza». Occorre dunque, secondo il docente e, inoltre, produttore di grandi vini nel distretto storico-geografico dell’Irpinia (Quintodecimo), rafforzare la formazione, la conoscenza e l’educazione nei confronti del vino e non diffondere unicamente un mero interesse verso il consumatore.

Andrea Lonardi, Master of Wine, con il suo discorso “Sintonizzare il brand con il tempo presente e futuro”, ha voluto sottolineare in primis le grandi potenzialità viticole italiane ancora inespresse, in cui le regole, la preparazione e il tempo divengono fondamentali: «Siamo sempre stati abituati a cambiare, ma è la velocità dei cambiamenti quello che oggi è davvero significativo e dovremmo, a mio parere, adottare l’approccio anglosassone nell’affrontare le problematiche attraverso la tecnica e la metodologia». In altre parole, Lonardi ha voluto rimarcare che le trasformazioni si ottengono attraverso il passaggio da una leadership di comando a una di prestigio, come a dire che il comando si conquista ma con il fascino e non con l’imposizione. «È in atto un cambiamento di stile per i vini che si basa su tre filoni principali: il primo riguarda i bianchi di collina e di montagna che stanno puntando sempre più sulla parte marina, iodata, salata. Il secondo attiene al notevole abbassamento della temperatura di servizio di parecchi vini rossi per essere consumati secondo, per esempio, il concetto di pinosophy, ovvero bere vini che assomigliano a un Pinot Nero, freschi, leggeri e agili. Il terzo concerne le bollicine che si stanno dividendo a metà, cioè da una parte abbiamo quelle puramente da aperitivo e che saranno influenzate dalla mixology; mentre, dall’altra, quelle di qualità continuano a prestarsi alla gastronomia con maggior forza e orgoglio, in cui la stessa carbonica si riduce a favore di un metodo perpetuo».

Giovanni Bigot, agronomo e consulente, nel suo ragionamento dal titolo “la forza della (bio)diversità”, oltre a ribadire l’importanza dell’osservazione scientifica del suolo al fine di ottenere preziose informazioni nella costruzione di un vino, ha posto l’accento sulla gestione della complessità (e quindi anche della diversità) per andare contro la standardizzazione e la semplificazione: «Ovvio, ci vuole coraggio e rischio, ma dobbiamo sempre avere in mente il miglioramento continuo, cioè la valutazione costante di cosa sta succedendo per reagire di conseguenza. Ecco che allora ci può venire in aiuto l’epigenetica, una scienza meravigliosa che ci permette di descrivere tutte quelle modificazioni ereditabili che variano l’espressione genica, pur non alterando la sequenza del Dna».

Infine, Eugenio Pomarici, professore di economia all’Università di Padova, nel suo pensiero “Resilienza dei distretti vicoli italiani”, dopo aver rimarcato il concetto che «L’Italia rimane il primo esportare di vino al mondo per volume e il secondo per valore», ha evidenziato la forza consolidata del nostro Paese come produzione distrettuale differenziata e la sua significativa resilienza, «che è un qualcosa di più della semplice resistenza, avendo dato prova di mantenere sostanzialmente sia le funzioni che la struttura identitaria, proseguendo nel considerare il vino come prodotto anche culturale».

In definitiva, un proficuo confronto che ha posto il vino al centro del sistema Italia, spargendo un pacato ma sano ottimismo per il futuro prossimo.

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