SOSTENIBILITÀ. Ma anche “resilienza” invece di “resistenza”, “storytelling” invece di “narrazione”. Concetti giustissimi ma parole abusate per cui, secondo Marco Ambrosino, andrebbero trovate delle alternative (senza svuotare di significato anche quelle). Che per lo chef procidano di 28 Posti – il ristorante milanese sui Navigli di cui guida la cucina dal 2014 – le parole abbiano un peso fondamentale lo si capisce seguendone i canali social: versione contemporanea di un taccuino di viaggio, o un diario di bordo, vi annota le sue riflessioni su ingredienti, tecniche e piatti con dialettica e spirito d’indagine insoliti per un cuoco, anche oggi che la comunicazione tende spesso a prendere il sopravvento sulla cucina. Nel suo caso è il contrario, o meglio l’una è in funzione dell’altra: le parole, e prima ancora i ragionamenti, servono a dare ancoraggio ai piatti, le tecniche devono tradurre quei pensieri in cibo squisito, senza sprecare nulla. «Un piatto non sarà buono solo perché viene raccontato bene, naturalmente. Io lo faccio soprattutto perché mi piace, anche se richiede tempo e cura. Creare una storia invece di limitarsi a scrivere “cotto a bassa temperatura”, per esempio, contribuisce a cambiare il piano della discussione, a stimolare curiosità e conoscenza».
Lui della narrazione – e della sostenibilità – ne ha fatto un metodo. E un progetto digitale che va oltre la cucina per diventare occasione d’approfondimento e confronto (con colleghi ma anche con musicisti, architetti, antropologi, giornalisti), chiamato Collettivo Mediterraneo. Creato insieme alla moglie Simona Castagliuolo, architetto, di Procida anche lei, è – come scrive nel manifesto – uno spazio d’inclusione sociale e culturale che “si propone di raccontare la multiculturalità del bacino che ci ospita, la biodiversità (…)”, mettendo in condivisione ciò che studiava già da tempo. «L’obiettivo è definire un’identità mediterranea che in fondo non c’è mai stata. Il racconto di quest’area è sempre stato perlopiù storico, mentre dovrebbe essere soprattutto geografico. Noi cerchiamo di farlo nel modo più relativista possibile, attraverso il cibo e non solo. Per me, come cuoco, la vera ricchezza del Mediterraneo è la sua incredibile diversità».
Cosa che vale anche per l’ecosistema ittico e ci riporta al tema della sostenibilità marina. Anche perché tra i temi trattati (spesso grazie al contributo di Fabio Tammaro, cuoco preparatissimo su tipologie di pesce e tecniche) ci sono la salvaguardia dei mari e del suolo, la promozione della pesca etica e dell’agricoltura sostenibile, la divulgazione delle culture del Mediterraneo. E se può sembrare strano che Ambrosino lo faccia dal capoluogo lombardo, e non dall’isola flegrea, è in realtà un filo diretto quello che lega i due “habitat” del cuoco. «Procida definisce la mia cucina in termini di genetica, sono cresciuto a mollo nell’acqua salata e il legame con gli ambienti marini e litoranei è indissolubile. Ma amo l’apertura e la dimensione internazionale di Milano, sono altrettanto di stimolo. Mi piace dire che cucino con i piedi a Procida e la testa a Milano». Fare una proposta (anche) di pesce con tale approccio in una città senza mare è un’ulteriore sfida: «L’importante è contestualizzare, senza dover spettacolarizzare ogni cosa ma nemmeno facendola troppo semplice. Se raccontiamo qualcosa deve essere fatto nel modo giusto: non è vero che non c’è più pesce da mangiare ma non ci può essere lo stesso per tutti».
Pure demistificando una certa retorica della cucina isolana. Anche perché se è vero che a Procida ogni giorno le barche portano in pescheria quello che hanno preso in mare poche ore prima, si tratta degli avanzi della pesca commerciale, perlopiù piccole pezzature di scarso valore – tra cui la mazzamma, pesca povera di paranza usata per le fritture o in umido – mentre la spigola offerta al ristorante potrebbe essere stata a Milano prima di tornare sull’isola, uno dei paradossi della distribuzione ittica. E qui torniamo al tema principale, che è quale pesce acquistare e servire: una scelta di gusto, etica e di “messaggio”. «Nel nostro mare ci sono circa 370 specie ittiche facilmente commestibili – prosegue Marco – ma noi ne utilizziamo una quindicina. È importante allora parlare di questi argomenti: creare un “vocabolario” del mare permette poi di comporre “frasi” più complesse e interessanti».
Il che vuol dire piatti non banali, ma soprattutto buonissimi, che sappiano uscire dal discorso gastronomico dominante creando nuova attenzione. «Mi sembra che spesso predomini l’estetica o si scelgano determinate materie prime perché lo fanno tutti. Per me, come cuoco, la sfida è usare la mia professionalità per scegliere qualcosa di diverso, che magari mi contraddistingua, e soprattutto per renderlo più buono e al tempo stesso comprensibile per chi lo mangia, in modo che sia anche da stimolo a conoscere di più una certa materia prima». Perciò si ribella al diktat gastronomico che vieta di replicare gli stessi elementi nei piatti di un menu, o meglio lo sovverte: «Il bello è proprio utilizzare l’animale intero – che sia pesce o carne, in particolare volatili o agnello – costruendoci sopra sempre qualcosa di nuovo. Lo facciamo soprattutto perché ci diverte, ci tiene attivi ed è il nostro modo di lavorare. Io ragiono prima da cuoco, pensando al gusto e alla tecnica, più che da “condottiero” che si è sobbarcato una missione».
Così avviene per il rombo, pesce che ama molto e che è ora protagonista del menu estivo. Mentre i carnosi filetti della pancia sono alla base del Rombo tiepido, Turlu, salsa di ricci di mare e datteri, minestra di orzo fermentato e tabacco, gnocchi di pane stagionato, piselli fermentati (servito come secondo), tutto ciò che avanza va a comporre l’antipasto Fish offal feast: i ritagli della coda, tenaci, vengono macerati in un impasto di cereali fermentati (che ne ammorbidiscono le proteine dando una sensazione simile a quella di un salume) e serviti con un estratto di asparagi bianchi fermentati; ali e pelli cotte al vapore sono condite e pressate in una terrina che ricorda la testina di vitello, servita con la salsa di limone bruciato (residuo di altre lavorazioni); il collo e la testa diventano una crocchetta speziata che ricorda le kofta mediorientali, accompagnata da un’emulsione di fegati di rombo montata con aglio alla brace, dalla nota affumicata. Un piatto che allarga le frontiere del Mediterraneo, partendo dai navigli milanesi e passando per il Golfo di Napoli.