Salina

Salina

Se del felice connubio tra terra e mare è fatta la sua storia, oggi sono la gastronomia e l’ospitalità più autentica a rendere quest’isola famosa nel mondo.

Conviene allertare bene i sensi quando si sbarca a Salina. Entrare in simbiosi con l’energia della natura che vibra ovunque e stordisce. L’isola si concede in tutta la sua generosità e bellezza solo a chi è disposto a scoprirla e capirla, perché niente è comprensibile se non si è pronti ad andare oltre dolci tramonti e comodi lettini a bordo piscina. L’invito è a viverla in profondità, succhiarle il midollo. Fatto di terra, risorsa primaria dei salinari – più contadini che marinai o pescatori – e mare, loro croce e delizia. A rendere unica Salina è proprio la magica comunione di questi due elementi, un equilibrio pedoclimatico di cui propiziano i tanti piccoli floridi fondi abbarbicati tra montagna e costa.

Lo sa Nino Caravaglio, vigneron figlio d’arte e salinaro doc, che coltiva, vendemmia e trasforma dal 1989 la regina dell’isola, la malvasia, prima in passito e poi, dal 2011, anche in secco, secondo i dettami dell’agricoltura biologica. Lo sanno Luca Caruso e Natascia Santandrea, che con il progetto Eolia hanno voluto “completare” e contaminare il mondo degli autoctoni isolani con la stessa filosofia di accoglienza e accudimento che caratterizza la storia del Signum, l’albergo di famiglia aperto nel 1989. Lo sanno, tanto da cambiare vite e destini segnati, Clara Schwarzenberg e Diego Taranto della giovanissima azienda agricola Barbanacoli, che nei loro vini vogliono portare il terroir e la storia delle vigne di Salina. Lo sa la famiglia Tasca D’Almerita, il blasone del vino siciliano, che a Capo Faro ha voluto preservare, prendendosene cura, uno storico vigneto a ridosso del faro, e mettere a dimora nel 2004 la vigna “Anfiteatro” che conserva la genetica delle vecchie viti di quel promontorio a picco sul mare. Per capire l’eroicità del lavoro, è nei loro vigneti che bisogna andare. Percorrere sentieri, arrampicarsi sui terrazzamenti, partecipare alle vendemmie, studiare la vinificazione in secco della malvasia o perdersi tra i graticci dove, lasciata maturare, diventerà passito.

Di tutto questo s’è invaghito Paolo Ferretti, creatore e mentore di Care’s insieme allo chef Norbert Niederkofler, tanto da acquistare un terreno sull’isola e chiedere a Caravaglio di aiutarlo a dare più profondità e rotondità alla sua Malvasia. Nzemi – questo il nome scelto – riposa 22 mesi nelle Pyramitt, botti in rovere a forma di piramide, prima di essere imbottigliato in soli mille, preziosi esemplari. Ma se di viti e vino è intrisa da sempre la storia di Salina, è alla fine degli anni 80 del secolo scorso che la cultura enoica locale riceve una spinta propulsiva più efficace dei floridi commerci che fino al 1889, l’annus horribilis della filossera, avevano animato le sue acque. Il volano si chiama ospitalità e a Salina l’ospitalità si chiama Signum, un pugno di tipiche case eoliane in uno degli angoli più ameni dell’isola, aperto nel 1989 grazie alla passione e alla determinazione di Michele Caruso e Clara Rametta e trasformato negli anni in uno dei più esclusivi resort al mondo. Soggiornare al Signum significa da sempre immergersi nella quintessenza dell’accoglienza. Dall’atmosfera cozy degli spazi ai trattamenti termali della Spa, passando per la preziosa offerta gastronomica a firma di Martina Caruso, stella Michelin dal 2016, non c’è momento della giornata che non sia scandito dal garbo di Luca Caruso, oggi patron insieme a Martina, che dopo essere entrato – giovanissimo – al Signum ha confezionato con talento da couturier la migliore ospitalità isolana. Suo il benvenuto, suoi i consigli sull’isola, sua la narrazione del vino in cantina – imperdibile – e a tavola, dove la taumaturgica Bagna cauda introduce a piatti signature costantemente rieditati, puntuali interpretazioni del mare e rigeneranti digressioni vegetariane. Sua, infine, l’idea della terrazza bar con vista mozzafiato sul golfo di Malfa dove il barman Raffaele Caruso spazia con disinvoltura dai pre-prohibition ai tiki cocktails, ma omaggia l’isola nel Bloody Mary con vodka homemade al cappero e finocchietto selvatico e centrifugato di pomodoro. Attitudini, quelle messe in campo dalla famiglia Caruso, certamente non sfuggite ad Alberto e Francesca Tasca D’Almerita, che sommate all’infatuazione per un vigneto ammirato per anni dal mare e poi acquistato, li ha portati a concepire CapofaroLocanda & Malvasia, un progetto circolare di wine experience sul suggestivo promontorio di Capo Faro. Qui è possibile assistere al lavoro in vigna, dalla potatura alla vendemmia; passeggiare tra i filari accompagnati da un sommelier; sorseggiare malvasia al wine bar con vista sulla scenografica vigna “Anfiteatro” e infine godere, al ristorante, del grande lavoro simbiotico col territorio che lo chef Gabriele Camiolo sta portando avanti proponendo una cucina che fa dell’orto della tenuta e del mare di Salina i suoi cardini. L’architettura in stile eoliano delle residenze, dotate di ogni comfort e arredate con coerenza, qui vira nel minimalismo del bianco assoluto a cui il verde brillante dei vigneti conferisce particolare enfasi.

Ma se i ristoranti del Signum e di Capofaro rappresentano – mutatis mutandis – due facce della stessa medaglia, e cioè l’apice dell’offerta gastronomica isolana, la straordinarietà della materia prima e una cultura ancestrale di tradizioni tramandate sono il solido background di altri e altrettanto validi livelli di ristorazione, con nomi che nel tempo sono diventati veri e propri emblemi territoriali. Uno, il più noto e il più amato, anche per l’istrionismo e l’esuberanza del suo patron – lo chef Fabio Giuffrè – è certamente ‘Nni Lausta, a Santa Marina, la terrazza più famosa di Salina a due passi dal molo di attracco di aliscafi e traghetti. Una prossimità che da oggettivo vantaggio lui ha saputo trasformare intelligentemente in stimolo a evolvere quotidianamente il suo talento nel trattare il miglior pescato dell’isola. Alle ricette popolari raccolte da nonne e mamme è esclusivamente devota, invece, la cucina di Pa.pe.rò Al Glicine, ultima tappa golosa – guai a chiamarla gourmet – poco prima di spiaggiarsi sulla sabbia nera di Rinella: un tripudio di teglie colme di capperoni saltati, peperoni “ammuddicati”, polpette di totano, involtini di alici o di ciaùla e quant’altro mare e terra quotidianamente offrono e che dal 2006 le mani e le menti dinamiche di Paola, Peppe e Rossana, fratelli simbiotici, trasformano in motivi più che validi alla sosta. Su tutti la granita di ricotta, accorato omaggio al padre gelataio prematuramente scomparso, che i capperi canditi e in polvere di Sapori Eoliani, trasformano in qualcosa che se non è il divino, gli somiglia molto.

Da Scoprire: capperi di Salina

Se a Salina la Malvasia è – per dirla alla Veronelli – la poesia dell’isola, a riportare coi piedi per terra ci pensano i suoi capperi, presidio Slow Food. Tutte le fasi di lavorazione avvengono ancora in maniera artigianale: le raccoglitrici che da maggio ad agosto operano nelle capperaie e poi salano, “curano” e selezionano – in base al calibro – l’oro verde non si contano. A segnare una svolta in pratiche immutate nei secoli ci ha pensato nel 2014 Roberto Rossello, dando vita a Sapori Eoliani, azienda agricola oggi guidata dalla madre Maurizia dopo l’improvvisa scomparsa di Roberto. Suo il progetto – insieme all’Azienda Agricola Virgona e lo chef Salvo Paolo Mangiapane – di una “linea” dolce del cappero, come la confettura spalmabile con la malvasia o il cappero candito utilizzato con successo sulla granita di ricotta, must isolano. I capperi sono presenti ovunque, sui piatti di terra e su quelli di mare, ed è addirittura iniziata la produzione di un’originale birra locale al cappero. Particolarmente apprezzate sono le fresche insalate estive: patate lesse, cetriolo, pomodori, cipolla, basilico, olio e capperi, naturalmente.

Maggiori informazioni

In apertura: la Triglia 4.0 di Martina Caruso al Signum

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