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fratelli salvo

Salvatore e Francesco Salvo, le lezioni apprese

Attenzione ai dettagli e cura nel fare le cose per bene sono tra gli insegnamenti principali del padre Giuseppe. Una base preziosa su cui sviluppare una nuova visione di pizzeria di successo, che ha cambiato l'idea dell'esperienza di una "buona pizza".

Tutto inizia dall’impasto “muollo”. Così Giuseppe Salvo, il padre di Salvatore e Francesco – e di Ciro – Salvo definiva l’impasto “lento”, poco tenace, punto di partenza imprescindibile per una buona pizza. Oggi sapremmo direche l’alta idratazione garantisce sofficità ma anche digeribilità migliorando i processi micro-biologici della fermentazione e maturazione; ma a quei tempi – Giuseppe aveva rilevato la pizzeria di Portici nel 1968 e i tre figli hanno iniziato a mettere le mani in pasta da giovanissimi, ben prima che gli anni 2000 portassero con sé la grande attenzione alla pizza e ai suoi aspetti tecnici – chi faceva una buona pizza seguiva soprattutto l’istinto e l’esperienza empirica.

Così, l’impasto “muollo” era una bella sfida per chi doveva stendere le pizze: difficile da gestire e al limite della lavorabilità «soprattutto per i canoni della stesura napoletana, fatta di gesti molto veloci e decisi, senza uso della farina sul piano, che richiede un attento uso delle mani anche per ottenere una forma quanto più possibile regolare del disco anche quando lo si prende con la pala di legno», specifica Salvatore. Il più giovane dei fratelli – classe 1982 – oggi è il “pizzaiolo” dell’attività che guida insieme a Francesco, e che conta sia la pizzeria a San Giorgio a Cremano (aperta nel 2006 a poca distanza da quella originaria di Portici, con non poche difficoltà economiche e burocratiche) sia quella alla Riviera di Chiaia, a Napoli, mentre il fratello – che per seguire l’azienda ha lasciato la carriera da ingegnere edile – si occupa soprattutto della gestione.

E anche se i due sono unanimemente riconosciuti come i capostipiti di un nuovo modo di intendere la pizzeria in Campania (e non solo), puntando su design moderno e confortevole, servizio attento, proposta enologica ed esperienza complessiva “da ristorante” e un’organizzazione manageriale che non si era mai vista prima in un’attività di famiglia appartenente a questo genere di ristorazione, Salvatore ci tiene a sottolineare i forti legami con le origini. E, appunto, con quell’idea di impasto che resta alla base delle loro pizze: buonissime, moderne nell’impostazione e spesso fantasiose negli ingredienti e accostamenti – vedi la Oshirase, ispirata al Giappone, con il manzo marinato con salsa di soia e spezie orientali e una salsa di peperoncini verdi ad arricchire la base bianca, o la Terra Mare, con fior di latte, melanzane alle spezie giapponesi in crema, cipolla rossa di Tropea in osmosi di aceto di vino, filetti di tonno sott’olio, julienne di sedano, basilico e olio extravergine d’oliva – ma sostanzialmente riconoscibili come appartenenti all’alveo della tradizione napoletana, con il cornicione giustamente sviluppato che invita a mangiare gli spicchi con le mani. «Siamo partiti da quello che conoscevamo, dal prodotto che si faceva nella pizzeria di famiglia. Ma vi abbiamo aggiunto un approfondito studio tecnico, trovando le spiegazioni scientifiche a ciò che avveniva in modo da poter sottolineare i punti di forza e migliorare quello che si poteva», prosegue Salvatore.

Lui ha iniziato da ragazzo a lavorare in pizzeria, anche se il padre avrebbe voluto per tutti i figli un futuro diverso, a cominciare dagli studi. «Ma io dopo il liceo avevo capito di voler stare in pizzeria. Diciamo che avevo già una buona predisposizione soprattutto grazie alla mia nonna materna, che era una grande cuoca e mi ha trasmesso la passione per il cibo. Da bambino mi cimentavo a casa con i dolci, e all’epoca non c’erano le video-ricette da seguire su YouTube! Se mio padre oggi fosse qui con noi direbbe che aveva riconosciuto da tempo in me un’attitudine». Tra i primi compiti, quello al banco della friggitoria che è da sempre uno dei punti di forza dei Salvo: «Avevamo una vetrina su strada, mio padre però faceva secondo tradizione solo pezzi piccoli – zeppole, panzarotti, scagliozzi, melanzane in pastella – venduti a pochi spiccioli. Se ne occupava lui perché, vista la stazza imponente, non riusciva più a stare dietro al forno. Quando la richiesta iniziò a cambiare e decise di cimentarsi anche la frittatina, ci mise un bel po’ a capire come farla al meglio, ci combatteva. Per non parlare delle paste cresciute, che erano la sua ossessione: dovevano essere perfette, nemmeno quelle che faceva sua sorella gli andavano bene. Così io le lasciavo sempre per ultime in modo che le friggesse mio padre quando arrivava. E lui cominciò a venire in pizzeria sempre più tardi finché una sera non si presentò per nulla, e toccò a me lanciarmi a farle; dopo qualche tempo tornò in pizzeria, le assaggiò e disse che me la stavo cavando. Ma per molto tempo mia madre ha continuato a paragonarle alle sue! Per me gli inizi sono stati difficili, avevo sempre qualcuno più “avanti” di me con cui confrontarmi».

Anche l’idea stessa di fare della pizzeria un luogo di accoglienza, dice Salvatore, viene in parte dal lavoro di Giuseppe: «Non si è mai fermato a pensare solo a fare una buona pizza, guardava a tanti aspetti di questo lavoro: dalla bottiglia di vino particolare, pur senza strafare, per qualche cliente più esigente fino alla scelta dei fornitori che seguiva più le logiche “di casa” che quelle commerciali. Per fare la “salsiccia e friarielli”, ad esempio, andava da un bravo macellaio per comprare le salsicce migliori, quelle che avrebbe usato anche per cucinare per la sua famiglia. Per non parlare della pizza fritta, che era un suo vanto: il ripieno di ricotta doveva essere assoluto protagonista, si arrabbiava se non lo si metteva fin quasi a bordi lasciando toppo impasto “nudo”, come succede spesso, mentre doveva essere qualcosa di sostanzioso e goloso. Ecco, amo mantenere questo genere di cura».

Insegnamento preziosi, che hanno fatto la differenza anche per lui e Francesco. «Quando ci siamo trovati a dover prendere il suo posto, dopo la sua scomparsa, ci siamo approcciati a quello che intanto era diventato un “nuovo mondo” della pizzeria – con il successo delle catene che garantivano qualche comfort in più rispetto al classico consumo veloce –, ricordando però le attenzioni di nostro padre. Abbiamo deciso di provare a rinnovare il sistema creando un nuovo concetto di accoglienza e un’offerta più evoluta, di pari passo all’attenzione crescente verso la pizza. È entrata in gioco la passione per il buono, così come il fascino per il mondo degli chef che abbiamo iniziato a conoscere e frequentare, scambiandoci opinioni e conoscenze. Insomma, abbiamo sviluppato un pensiero che ci ha portato a lavorare al meglio anche gli ingredienti più semplici, avendo sempre un pensiero dietro».

Nessuna strategia studiata a tavolino tuttavia dietro al loro successo, ci tiene a precisare Salvatore: una serie di coincidenze e incontri fortunati e tante lezioni apprese – positive e negative – hanno forgiato il loro percorso professionale e il modo di fare impresa, diventando la prima pizzeria ad avere la (lunga) fila in provincia di Napoli e formando una squadra di oltre 60 persone. A cui, soprattutto, trasmettono il concetto di qualità: «Chi lavora con noi deve capire quanto siano importanti le sfumature, i dettagli, le piccole attenzioni che nel complesso diventano fondamentali: è su quelli che si gioca la qualità. Essere in sintonia su questo aiuta tutti a crescere, ancor più che saper fare una buona pizza».

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