Quando nell’autunno del 2022, il neo-formato Governo Meloni ha presentato la nuova denominazione del Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, la confusione terminologica e semantica – legata soprattutto alla vicinanza tra sovranità e sovranismo – ha scatenato polemiche, paure e grida di vittoria parimenti infondate: quali che fossero le ragioni della scelta (mai davvero chiarite) la sovranità alimentare è in realtà un pensiero che attraversa in maniera transnazionale le correnti “ruraliste” di tutto il mondo, da Slow Food alla Via Campesina (movimento internazionale a difesa della piccola agricoltura sostenibile), con il fine di garantire il diritto dei popoli all’autodeterminazione delle proprie politiche alimentari in ottica di bene comune, sottolineando la connessione tra territori, comunità e cibo.
Tuttavia, pur visto in questa chiave più condivisibile, anche il concetto di sovranità alimentare, e l’orgoglio identitario legato al cibo, non sono del tutto privi di aspetti problematici che si ricollegano a tendenze connesse tanto alla globalizzazione quanto a sovranismo, populismo e nazionalismo sempre più evidenti nel mondo intero. E che già da tempo – dalle levate di scudi contro preparazioni “etniche” o variamente “eretiche” alle manifestazioni di piazza con politici che s’imboccano di piatti tipici – trovano proprio nel cibo una rappresentazione estremamente efficace, in quanto condivisa e capace di parlare alla “pancia”, è il caso di dirlo, del popolo; un’evidenza che la pandemia (solo l’ultima delle emergenze che ci ricordano come il cibo possa essere portatore tanto di condivisione e comunanza, quanto di rischi potenziali) ha contribuito a mettere sotto gli occhi di tutti. Due libri usciti tra il 2021 e il 2022 – anni complicati preceduti dall’emergere di istanze nazionalistiche e da conflitti politici, sociali e religiosi sempre più aspri – analizzano le questioni identitarie legate al cibo e quel legame profondo tra territori, popoli e culture che siamo abituati a considerare in maniera acritica, elogiando i primati gastronomici e sobillando presunte rivalità basate sulle abitudini alimentari di chi è “diverso” da noi: che si tratti dei cugini d’Oltralpe, delle mode a stelle e strisce o di kebab. Gastronazionalismo, pubblicato da People, a cura di Michele Antonio Fino, docente dell’UniSG di Pollenzo, e Anna Claudia Cecconi, esperta in scienze gastronomiche (con un contributo di Andrea Bezzecchi, produttore di aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia in polemica con le maglie larghe della Igp modenese), che analizza con dovizia normativa il sistema europeo delle Denominazioni d’Origine, emblema di quella che gli autori definiscono efficacemente “food heritage fever”. E (solo in inglese al momento, per Columbia University Press) Gastronativism: Food, Identity, Politics di Fabio Parasecoli – esperto di Food Studies e docente della New York University con collaborazioni accademiche che spaziano dalla Bologna Business School all’Accademia Polacca delle Scienze di Varsavia – che a partire dal titolo abbraccia un’ottica più ampia del fenomeno.
«A mio parere, in questa fase così pervasiva di globalizzazione, la nazione è sicuramente ancora un orizzonte importante ma non l’unico, e interagisce con altre questioni che sono sia interne agli stati, come classe, religione, etnia, genere, sia transnazionali. Ecco perché ho preferito recuperare il concetto di “nativismo”, che affonda nella realtà americana: nazione coloniale, da sempre aperta alle migrazioni, gli Stati Uniti fin dall’inizio si sono confrontati con la questione di chi fosse il “vero americano” e con la ricerca di un’identità nazionale rispetto agli “altri”, rappresentati dapprima da tedeschi e irlandesi, poi da ebrei e italiani, da asiatici e ora da messicani e centroamericani – spiega Parasecoli – . Nel libro utilizzo il termine per indicare dinamiche che avvengono a diversi livelli, sempre più diffuse ed evidenti, in cui il cibo spesso gioca un ruolo fondamentale: dai movimenti fondamentalisti indiani legati al consumo di carne vaccina alle polemiche da parte della destra italiana per la lasagna senza carne di maiale voluta da Papa Francesco al pranzo per i poveri in Vaticano, adatta anche per i musulmani. Ma pure negli USA: quando Biden in un discorso ipotizzò la riduzione dei consumi di carne per contrastare gli effetti del cambiamento climatico, un tabloid inglese riprese la notizia dichiarando che il Presidente ne avrebbe limitato massicciamente il consumo e che il successivo quatto di luglio l’hamburger sarebbe stato sostituito dai cavoletti di Bruxelles. Una fake news poi rettificata, ma intanto aveva fatto molta presa sull’opinione pubblica». Parasecoli – che si definisce il perfetto esempio di “globalista elitario” che ha saputo prendere il meglio dai processi di globalizzazione e cosmopolitismo –, identifica due tipi di gastronativismo: uno “esclusivista”, che punta a demarcare il confine tra “noi” e “gli altri” attraverso il cibo e si basa sulla paura di perdere vantaggi e privilegi di una parte della società che si sente minacciata da altre; e uno più inclusivo, come nei movimenti della sovranità alimentare, che cercano anzi chi si unisca alla lotta contro “nemici” come le multinazionali o gli interessi politici. Entrambi, però, finiscono per individuare nel cibo una barriera.
Si lega più all’esperienza europea, «profondamente nazionale» e basata sul principio di individualità le cui radici, secondo lo storico Federico Chabod, affondano nel Romanticismo, il libro italiano. Ce lo spiega Anna Claudia Cecconi, che ha iniziato a interessarsene durante una ricerca bibliografica sul confronto gastronomico tra l’epoca risorgimentale e quella fascista, individuando un parallelismo (basato sulle relazioni cibo/cultura e cultura/potere) tra Pellegrino Artusi, padre della cultura gastronomica “nazionale” italiana, e Filippo Marinetti, la cui battaglia artistica contro la pastasciutta è al servizio della propaganda sull’autarchia. «L’Europa è il riflesso delle nostre esperienze particolari, individuali, ed è proprio lì che noi autori riscontriamo un problema. Perché l’Europa potrebbe essere un nuovo capitolo collettivo vocato al valore della diversità. Ma siamo pronti a questo salto nel blu? – si chiede – . I modelli di governance autarchici e personalistici che risorgono nello spazio geografico europeo rendono molto attuali delle riflessioni storiche e culturali sul nazionalismo perché richiamano e rafforzano il senso di individualità basato su un’identificazione storica. Le democrazie invece devono restare uno strumento a protezione della comunità, inteso come collettivo che negozia le proprie identificazioni, non le assume o le professa in modo dogmatico. Non è in dubbio tuttavia che le democrazie liberali stiano vivendo uno dei momenti più critici della loro storia e questo richiede una riflessione sugli strumenti». In questo quadro s’inserisce la critica al sistema Dop e Igp, rivolta non alle intenzioni (vocate alla protezione della diversità e alla conservazione delle espressioni culturali locali) ma allo strumento in sé, mal comunicato e percepito, che mentre si presta perfettamente a sostenere un prodotto “scalabile” ed esportabile come il Parmigiano Reggiano può invece danneggiare le piccole produzioni locali come la Caciotta di Urbino. «Una criticità che scaturisce da un’analisi profonda come quella che abbiamo tentato è l’associazione origine-qualità e quella protezione-provenienza. L’origine viene ormai largamente utilizzata per comunicare un prodotto in cui il “Made in” conta, o ancora per contrastare il fenomeno della delocalizzazione e valorizzare produzioni che invece sfruttano il locale come vantaggio competitivo, tuttavia il ricorso a questo tipo di marketing territoriale può avere delle implicazioni politiche e soprattutto sociali spesso trascurate. Il connubio origine-qualità porta a trovare rassicurante la similarità e pericolosa la diversità. Mentre la coppia protezione-provenienza crea un regime di esclusività», sottolinea l’autrice.
Dovremmo dunque rinunciare a quel legame così stretto che ci lega alla cucina dei nostri avi, ai sapori delle nostre terre? Certo che no. «I movimenti identitari non vanno eliminati né tantomeno ignorati. Abbiamo anzi sempre più bisogno di identità, a fronte della perdita di radici causata dalla globalizzazione – nota Parasecoli – . Lo sforzo che va fatto è di non rendere queste dinamiche esclusiviste, di evitare che la gioia e l’orgoglio di mangiare cibi che in qualche modo ci permettono di esprimerci diventino chiusura verso l’altro e diano spazio a dinamiche politiche pericolose: una partita che si gioca con l’educazione nelle scuole e in varie altre espressioni della vita quotidiana con cui siamo tutti chiamati a confrontarci».