Podere Cadassa

Si sta come i culatelli di Zibello appesi nella cantina di un ristorante plurisecolare

Da villaggio di riferimento per la sua comunità a tempio di produzione del “re dei salumi”: in provincia di Parma la storia di Al Vèdel è un affare di famiglia che dura da sette generazioni. Il segreto? La pazienza (e la muffa).

C’era un tempo in Emilia in cui era sempre l’anno del maiale, un rito contadino che scandiva tutte e quattro le stagioni. «Nelle nostre zone solitamente si uccideva a gennaio, per fare scorte di cibo nei mesi più freddi – commenta Enrico Bergonzi, chef e patron di Al Vèdel, uno dei ristoranti più storici d’Italia –. Esisteva proprio un calendario dedicato: si cominciava con frattaglie, cotechino, e strolghino; in primavera salame di filzetta, poi quello gentile, a settembre invece fiocchetto, a ottobre coppa, novembre era pancetta, dicembre finalmente culatello». Nella piccola frazione di Vedole, a due passi da Colorno in provincia di Parma (sì, dove ha sede Alma, una delle scuole di cucina più prestigiose al mondo), è intorno alla famiglia Bergonzi che fino agli anni Ottanta del secolo scorso si svolgeva la vita di un’intera comunità, o almeno di 280 persone circa. «Vivevamo in due chilometri ed eravamo autosufficienti, i vedolesi non avevano alcuna ragione di arrivare fino a Colorno. Esistevano una ventina di licenze in tutto: c’era il bar, il tabacchi, il telefono pubblico, la sala da ballo, la pista per giocare a bocce, il negozio di alimentari, si faceva il vino e si ammazzava il maiale, la nostra trattoria è rimasta una casa aperta a tutti fino a quarant’anni fa e ci venivano pure a vedere la televisione». Una magia che si spezzò con l’avvento dei primi centri commerciali e delle mense pubbliche, catalizzatori per gli operai che hanno smesso di fermarsi qui a pranzo. «Fu allora che abbiamo deciso di evolvere anche noi. Mi ricordo la prima volta che ho usato il foie gras: in passato per me il fegato era solamente di maiale, perché mio padre diceva che quello di vitello era troppo caro. Adesso vendo foie gras tutti i giorni. Il vino era quello della casa e si poteva scegliere tra bianco e rosso: oggi la nostra carta sfiora le 2mila etichette».

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C’è un’altra cantina, naturale, per cui i Bergonzi sono conosciuti dal 1780, quella labirintica vocata alla stagionatura del culatello. In questo ambiente saturo di umidità c’è un microclima ideale dove asciugare lentamente la coscia del maiale privata di osso e cotenna. Solo carne e sale ma «il segreto sta nella muffa e in quell’aroma della nebbia che scende verso la riva del Po e non si può togliere, per fortuna dico io, altrimenti me ne sarei andato a vivere a Zanzibar», ironizza Enrico che è anche titolare di Podere Cadassa (insieme a lui la sorella Monica, la moglie Edgarda Meldi e il cognato Marco Pizzigoni), marchio con cui da sette generazioni vengono promossi sul mercato i loro prodotti di norcineria e nome che identifica altresì l’area sulla quale si trova il salumificio. “Re dei salumi”, spesso oscurato dal conterraneo prosciutto di Parma, il culatello di Zibello Dop adesso comincia a essere apprezzato anche all’estero, pur costituendo ancora una nicchia: «Parliamo di otto comuni del parmense – Busseto, Colorno, Polesine Parmense, Roccabianca, San Secondo, Sissa, Soragna e Zibello –, tre industrie e pochi artigiani: un totale di 70mila pezzi all’anno. Un prosciuttificio questi numeri li fa in un mese. Sono due mercati diversi: quando sono andato fuori le prime volte ci guardavano come alieni e sono cosciente che promuovo un prodotto non caro, ma costoso. In Italia ne abbiamo di unici al mondo, ma se li facciamo in modo unico, legandoli al territorio e alla tradizione. Altrimenti abbiamo prodotti mediocri come tutti». L’unicità del culatello risiede proprio nella lavorazione rimasta interamente artigianale, fedele a quando l’anziana zia Cleofe nell’Ottocento decise di trasformare il proprio rustico in uno spaccio di generi alimentari e posto di ristoro per viandanti con annesso salumificio. Completamente riqualificata nel 2014 con la creazione del tunnel dei Culatelli e l’introduzione di particolari processi di asciugatura e areazione degli ambienti, la cantina viene “annusata” più volte al giorno «e si scende anche solo per aprire le finestre (ben più corte e strette rispetto a quelle dei prosciuttifici, ndr) e far arieggiare. Qui i culatelli devono stagionare minimo 11 mesi, come da disciplinare del Consorzio, ma  la migliore espressione di gusto secondo me – puntualizza il titolare – si raggiunge almeno dopo 16 mesi di cantina». Quanto può resistere un culatello appeso? «Dipende, non sta a noi dirlo. È il culatello stesso che lo dice e un bravo norcino lo sa. Adesso a 48 mesi si raggiunge una stagionatura interessante, possiamo arrivare anche a 5 anni – lui ricorda che si sono spinti addirittura a 60 mesi – oltre non vado, è un rischio».

[ngg src=”galleries” ids=”55″ display=”basic_thumbnail”]Il vero banco di prova (o d’assaggio) è al tavolo del ristorante Al Vèdel, Vedole in dialetto parmigiano, nome che se prima di Enrico Bergonzi mutava a ogni cambio di chef con il suo ingresso è stato definitivamente consacrato alla località emiliana, così come granitico è rimasto nel tempo il sodalizio con l’executive chef Matteo Bersellini, suo braccio destro in cucina da trent’anni. Come incipit del luculliano pasto a base di specialità della zona (i fortunati che vengono da ottobre a marzo potranno provare i tortel dols di Colorno: farcia agrodolce di mostarda frutta antica, pangrattato e marmellata di susine, conditi con burro, doppio concentrato di pomodoro e Parmigiano Reggiano, neanche a dirlo), c’è il richiamo alle sfumature – quante? Si va sempre a sentimento – di rosa e di grasso su tagliere. Dalla verticale di culatello con tre diverse stagionature (16-26-38 mesi) alla spalla cotta di San Secondo accompagnata con mostarda di verdure leggermente senapata, senza prescindere dall’accompagnamento con la torta fritta, ossia la variante parmense dello gnocco fritto, che arriva ancora calda e gonfia a tavola per sostituirsi al pane. Tra i fiori all’occhiello dell’azienda anche la produzione dei salumi di maiale nero di Parma avviata negli ultimi anni: si tratta della riscoperta di un’antichissima varietà di suini, allevati nelle colline del parmense allo stato semibrado. Non manca la possibilità di fare una piccola degustazione con pancetta di 4 anni, coppa di 2 anni, salame gentile e lardo marinato alle erbe. La differenza? Sicuramente lo strato di grasso più sviluppato. La regola tanto è sempre la stessa: ci vuole tempo, pazienza e zero chimica, altrimenti la poesia finisce.

Maggiori informazioni

Al Vèdel
Località Vedole, 68, 43052 Colorno (PR)
poderecadessa.it

Foto di copertina: la cantina di Podere Cadassa

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