Lucano del Vulture – anche se è nato nella vicina Canosa di Puglia, nel 1985 – Vincenzo Donatiello si è diplomato all’alberghiero con l’idea di fare il cuoco. È bastata però la prima sera di lavoro per fargli cambiare idea: «La mia prima tappa significativa è stata all’hotel Kiss di Lido di Savio, in provincia di Ravenna. Dovevo lavorare in cucina ma il titolare mi disse di prendere prima dimestichezza con la sala. Io ero timidissimo, eppure quella sera scattò qualcosa che non so descrivere. Ricordo ancora il primo tavolo che ho servito, le battute che scambiammo. Certo, l’esperienza aiuta a costruirsi una carriera ma decidere di dedicarsi completamente a far star bene il cliente è qualcosa che devi avere dentro».
Con questa sorta di “chiamata” è iniziato il percorso che lo ha portato a diventare a soli 35 anni uno degli uomini di sala più apprezzati d’Italia, sommelier fuori dagli schemi, docente e consulente, autore di un libro (di cui diciamo dopo) e anche di un gin “da pasto”: Don Gino, creato dal progetto Gin Sartoriale di Cillario&Marazzi su sua ricetta con note di agrumi, pepe ed erbe aromatiche, che lui definisce senza esitazione «il pinot nero dei gin». E, soprattutto, direttore di Piazza Duomo, il ristorante tre stelle Michelin della famiglia Ceretto con la cucina (rigorosa ma difficile da rinchiudere tra griglie) di Enrico Crippa.
Non che il passo sia stato breve: nel mezzo ci sono dieci anni di “stagioni” tra ristoranti, bar (anche al bancone) e pizzerie soprattutto in Romagna, una serie di successi – tra cui il titolo di Miglior Sommelier Junior d’Italia nel 2004 seguito poi da quello di Miglior Sommelier di Romagna nel 2010 – e la svolta nel 2009, quando trova il coraggio di inizare a bussare alle grandi porte: «Ero in crisi nel posto dove lavoravo, ho capito che dovevo fare un passo importante. Sono arrivato così a La Frasca di Milano Marittima, all’epoca due stelle Michelin guidato da Gianfranco Bolognesi: è stato grazie a lui che ho iniziato ad assaggiare etichette memorabili e ho capito che la mia strada sarebbe stata nei grandi ristoranti». Così accade: da Pascucci al Porticciolo a Fiumicino al Piastrino di Pennabilli, fino a quando non giunge, inaspettata, la proposta di Piazza Duomo. «Non avevo mandato una candidatura, loro stavano tenendo d’occhio il mio lavoro e mi hanno contattato». Arrivato come sommelier, dopo tre anni gli viene affidata la guida della sala e oggi dirige una squadra di otto persone che garantisce un’accoglienza all’altezza della cucina di Crippa.
Lui però non ci tiene a fare il fenomeno. Anzi, sottolinea un percorso fatto di errori da cui imparare, ripensamenti che fanno crescere. «In passato avevo basato tutto su un protocollo scritto, pensavo che fosse giusto condividere delle linee guida in modo chiaro. Poi ho capito che così tarpavo le ali ai ragazzi, le interpretavano come regole rigide e non riuscivano a esprimere la loro personalità. Più che non sbagliare mai è importante imparare a gestire l’errore. Il nostro lavoro va costruito giorno dopo giorno, valutando il menu, capendo chi siederà al tavolo: io uso spesso i social network per sapere chi sono i nostri ospiti». Così come è molto attento all’aspetto psicologico e al rapporto umano con i collaboratori, per cui sa essere un punto di riferimento anche oltre l’aspetto lavorativo.
Insomma il servizio da Piazza Duomo è una sorta di jam session – che coinvolge anche la cucina, all’unisono – o meglio, come lo definisce lui, è funky: «Si basa sulla lettura delle diverse situazioni, adottando il pensiero da cliente e non da cameriere. Il mio obiettivo è che chi lavora con me mi dica “ho fatto questo per il cliente” e non “ho fatto questo altrimenti ti arrabbiavi”. Bisogna mettere da parte l’arrivismo, ingrediente che non deve mai entrare in sala».
È questo anche il messaggio principale del suo libro (da poco autopubblicato su Amazon), intitolato efficamente “Io servo” – nella doppia accezione del verbo – e con un sottotitolo ancor più esplicativo: Dizionario moderno per camerieri, con consigli pratici dalla A alla Z per chiunque lavori in sala. «Ma è utile per tutti quelli che lavorano con il pubblico, e per i clienti che abbiano voglia di capire davvero cosa succede dietro le quinte di un ristorante: dalla gestione dell’errore, appunto, all’adrenalina che si sviluppa durante un servizio. Non ci sono tante nozioni tecniche, di manuali ce n’erano già. Quello che mi sembrava importante trasmettere era soprattutto la soddisfazione – non solo economica – di un lavoro che oggi è molto cambiato e che in pochi vogliono fare, le opportunità che può offrire. È un messaggio motivazionale molto difficile da trovare, nei libri come nelle scuole». Così si tocca un altro tasto dolente, quello della formazione: «Se non ci fossero realtà come Alma o Intrecci la situazione sarebbe tragica. La scuola alberghiera è ferma a un concetto di servizio vecchio, bisognerebbe formare in modo nuovo per primi gli insegnanti che forse non hanno vissuto la parte più bella di questo lavoro».
Stare al passo coi tempi, riuscire ad adeguarsi alle situazioni, d’altro canto, è una delle doti che deve avere l’uomo di sala. Vedi quello che sta succedendo con il Covid-19. «Siamo uno dei pochi ristoranti che ha riaperto con un tavolo in più: ne abbiamo sistemato uno più grande nella sala lounge per accogliere gli ospiti in maniera ancor più sicura. E in questo periodo in cui stiamo lavorando solo a pranzo, abbiamo finalmente riscoperto cosa vuol dire avere una vita normale! Scherzi a parte, sono necessarie tante attenzioni in più: dalle mascherine e le continue igienizzazioni fino al guardaroba con le veline per ogni soprabito, che gli ospiti sistemano da sé. Ma mi sembra anche che ci sia più attenzione da parte di questi ultimi verso i camerieri come persone. Dobbiamo però tenere alta l’attenzione su questo aspetto: durante il lockdown primaverile c’è stata una grande mediaticità della sala, interviste, collegamenti. Poi si è tornati al silenzio. Invece bisogna far capire che questo può essere un lavoro bellissimo, soprattutto se si affermassero turni più umani e condizioni migliori, con serie politiche di supporto al settore. Insomma, se vogliono fare un reality sulla sala io ci sono!».