Quando si racconta della zona del Soave Classico si narra di una delle denominazioni più importanti e antiche d’Italia, delimitata per la prima volta dal disciplinare nel 1931. Proprio nel comune di Soave, nella parte collinare di Fittà (296 metri slm), agli inizi del Novecento è cominciata la storia di Cantina Suavia grazie alla famiglia Tessari, che inizialmente conferiva il proprio raccolto di uva alla cantina sociale del paese. La svolta è arrivata nel 1982 quando Giovanni Tessari, insieme alla moglie Rosetta, decise di cominciare a imbottigliare il suo vino.
«Il ricordo di nostro nonno è per me ancora molto nitido – racconta Meri Tessari, una delle co-proprietarie dell’azienda insieme alle due sorelle Valentina (enologa) e Alessandra –. Ricordo il suo lavoro quotidiano meticoloso e appassionato: è proprio lui che ci ha trasmesso l’amore per questo lavoro e i valori che ancora oggi ci guidano».
Un sentimento che si è concentrato nell’esclusiva sperimentazione e coltivazione della garganega, il vitigno principe del territorio, che nei trenta ettari di Suavia viene esaltato da vigne vecchie 75 anni, al contrario della media della zona che si attesta sul mezzo secolo d’età. «Soave è tutto quello che facciamo. Le nostre radici affondano in questa terra nera che alimenta grandi uve bianche. Da questo contrasto, dall’armonia nata dall’unione dei contrari, nascono i nostri grandi vini», spiega Alessandra Tessari.
Ed è proprio sfruttando la longevità dei vigneti e il caratteristico suolo di origine vulcanica – la cui formazione risale a circa 50 milioni di anni fa – che la realtà veneta ha avviato un progetto innovativo di cinque anni (con la collaborazione del professor Giuseppe Benciolini, pedologo di grande esperienza), mettendo “sotto la lente di ingrandimento” le UGA (unità geografiche aggiuntive) del territorio, inserite nel disciplinare del Soave nel 2019. Da questo studio è nata la nuova linea denominata i I Luoghi, espressione delle micro-parcellizzazioni della cantina sul versante Nord-Est della collina del Soave Classico.
«I Luoghi nascono da un forte e profondo desiderio di interpretare questo territorio che è, come prima immagine, casa nostra – spiegano le tre sorelle – Le tre UGA da cui la linea prende forma rappresentano il Soave nelle sue espressioni più caratteristiche, a partire dalle pendenze ripide, dalle composizioni basaltiche dei suoli fino ad arrivare alla ricchissima biodiversità di quest’area, che attraverso il nostro approccio al biologico cerchiamo di difendere sempre. Tutti questi elementi sono percepibili nei tre vini ma in tre interpretazioni uniche e diverse l’una dall’altra».
Quindi tre luoghi e tre terreni dalla composizione differente, per tre vini che, sviluppandosi in ambienti opposti, si esprimono in maniera diversa, nonostante l’annata (2020) e il metodo di vinificazione – in vasca d’acciaio e contatto con le fecce fini per 12 mesi e un affinamento in bottiglia di due anni – siano identici. «Volevamo azzerare la variabilità del fattore umano e far uscire l’X-factor del territorio», chiosa Alessandra Tessari. Un case study reso ancor più interessante dal fatto che i tre vigneti si sviluppano nell’arco di circa tre chilometri e mezzo.
Le tre etichette all’assaggio
Fittà, Castellaro e Tremenalto sono i nomi delle etichette della nuova linea presentate al ristorante Etta del quartiere romano di Trastevere. Duemila bottiglie per tipologia (tutte di garganega in purezza), racchiuse nella bottiglia di Suavia – che omaggia la tradizione e le origini della cantina con la forma che richiama quella tipica del fiasco di vino di questi territori – contraddistinta dal sempre più diffuso tappo a vite.
Il Fittà è l’espressione del terreno più argilloso; di color giallo paglierino, al naso sono predominanti le note di frutta bianca, in particolare ananas, mentre al palato ha una beva che vira immediatamente sulla mineralità. È forse il vino più austero della trilogia, ottimo per accompagnare antipasti come la Tartare di tonno rosso e spigola alla mediterranea e le Crocchette di baccalà su cipolla in agrodolce.
Il Castellaro identifica la zona dove la roccia caratterizza fortemente il suolo, ricco di minerali e molto drenante. Se il colore è pressoché identico al vino precedente, nel calice emergono sentori di frutta evoluta e sfumature speziate di pepe bianco, mentre l’acidità rimane più equilibrata. L’accompagnamento? Ravioli ripieni di ricotta con gamberi, bisque, limone e granella di pistacchio.
Il terzo e ultimo assaggio è il Tremenalto, espressione di un terreno vulcanico antico e intatto, dove non c’è presenza di argilla ma è ricco di nutrienti. Nella batteria è il vino che regala il finale più dolce, grazie alle sensazioni nitide di marmellata di mela cotogna, che sono il frutto dell’esposizione del vigneto a ovest: il sole quindi incide sulla maturità dell’uva per un sorso caldo e opulento, ideale per sostenere il gusto intenso, ad esempio, del Polpo rosticciato su crema di patate allo zafferano.