Chi ha già mangiato al Duomo di Ciccio (all’anagrafe Franco) Sultano sa che si accomoderà in una delle salette del due stelle ragusano, dalla oro alla verde, dalla blu alla rossa. In meno, forse, sono a conoscenza della numerologia attribuita a ciascun tavolo, con un dettaglio che tradisce la superstizione dello chef: «L’otto è stato benedetto. Sotto – confessa – sono attaccati un rosario e diversi santini e, dietro la carta da parati, ho persino fatto disegnare una Madonna col Gesù: c’è stato un periodo in cui accadevano cose strane a chiunque si sedesse là». Chi, come noi, ha avuto la fortuna di cenare al tavolo numero uno avrà fatto caso, oltre alle voci della brigata al pass, a un suggestivo scricchiolio che sembra provenire dal soffitto ma, come rassicura il team, «non è il fantasma del barone: sono solo degli effetti sonori che si propagano in modo curioso». Il nobile di cui si parla è Don Saverio La Rocca che, ormai qualche secolo fa, commissionò la costruzione del palazzo in via Capitano Bocchieri a Ragusa Ibla.
Se l’anno prossimo saranno 25 anni dal primo servizio del ristorante che dal 2006 vale la deviazione – e per molti, anche il viaggio in toto –, più recente è l’apertura di Cantieri, il laboratorio e cocktail bar che, in un ideale itinerario gastronomico alla corte di Sultano, precede l’appuntamento a misura di gourmand. Qui l’aperitivo ha il sapore di un’oliva di Nocellara del Belice, svuotata e farcita con un fagiolo di Scicli (il cosaruciaru, Presìdio Slow Food), avvolta con marzapane di pistacchio e una fogliolina di salvia fritta. Per il cocktail pairing non si sbaglia accompagnando anche il resto degli snack con un twist sul Negroni, l’Oliva, caratterizzato dal fat washing con l’extravergine e da una ciliegia che subisce lattofermentazione per almeno un anno, prima di diventare il garnish con tanto di nocciolo: sembrerà veramente di mangiare un’oliva nera.
Il benvenuto continua sulla candida tovaglia del ristorante dove, tra gli altri amuse bouche, escono insieme due diverse praline con altrettante stagionature di formaggio ragusano, 12 e 24 mesi, con cuore di mela cola dell’Etna, sesamo di Ispica e polvere di lampone e, a parte, c’è una foglia di tenerume da pucciare in pistacchio e clorofilla di prezzemolo. Intanto arriva la carta dei vini aggiornata con il sistema del “semaforo”, una nuova informazione fondamentale sui prezzi, ponderati sul tempo di permanenza di una bottiglia in cantina: dal bollino rosso per i vini più giovani, e quindi minor ricarico e più convenienza, fino al colore nero che rappresenta il costo maggiore.
A fare da sfondo c’è la silhouette dei grissini che sbucano da un sinuoso cestino di midollino tra strisce al sale, olio e pepe, sfoglie aromatizzate al Ragusano e carta musica al pomodoro, come fossero spighe di grano che fanno capolino dalla gerla. «Vengono allungati uno alla volta, stirandoli di 24 cm – spiega Pietro, il panettiere de I Banchi, il vicino bistrot di proprietà, gestito da Gabriella Cicero, compagna nella vita e socia dello chef –. Quando si vanno a cuocere bisogna stare attenti: capita sempre quello un po’ più sottile che si colora prima. Quelli imperfetti li usiamo noi nell’aperitivo, d’altronde siamo più casual». Nel loro banco lievitati, però, è la scaccia a comandarsela, «noi la chiamiamo ‘mpanata, una focaccia sottile che è un concentrato di antropologia», sostiene Gabriella indicando la versione ragusana, totalmente vegetariana. Bisogna tornare indietro di nove anni per questa apertura “meno pettinata” dell’insegna gastronomica che avvenne in assenza dello chef: «Abbiamo inaugurato a luglio 2015 e lui stava partecipando a Pechino Express – ricorda Gabriella –. Quando poi è stato eliminato era contentissimo, non vedeva l’ora di tornare. Per noi è un format riuscito e ben collaudato che poi ha trovato casa al The Ritz Carlton di Vienna con il nome di Pastamara, al Giano del W Rome nella capitale e all’interno dell’aeroporto di Palermo. Sta funzionando come vero e proprio modello da esportare».
Da qui nasce la scintilla per il manifesto di “cucina educata” dello chef: «Per me è stato fondamentale coniare questo concetto – afferma Sultano – perché dà un indirizzo preciso di cosa è I Banchi oggi e di cosa vuole la gente. Non tutti cercano il fine dining». Sarebbe divertente osservare infatti le reazioni e i commenti di chi, passeggiando lungo la strada barocca all’ombra della collegiata di San Giorgio, ovvero il Duomo di Ragusa, si ferma a leggere il menu del bistellato affisso sulla parete, incastonato sotto il marchio di Ciccio Sultano che è la summa di un’oliva, di un cristallo di sale e di un chicco di grano. «Il cliente fisso del mio ristorante è quello che viene anche una volta all’anno. Come ho sempre detto, non basta la vita di un cuoco per interpretare una regione come la Sicilia e spero che Ricky possa diventare siculo-veneto». Non sarà una sfida impossibile: ci è già riuscito con Riccardo Andreoli, restaurant manager di Verona dalla cadenza ormai ragusana dopo cinque anni al fianco di Sultano. Il Ricky in questione è Riccardo Canella, il nuovo executive chef che, per la prima volta nella sua già importante carriera (ancora per un anno sarà under 40), si trova a lavorare su quest’isola che, insieme allo chef, usa come punta di compasso per poi abbattere i confini della creatività: la Sicilia è sì un continente gastronomico, ma è terra di viaggiatori che sono andati e venuti, che hanno preso e hanno dato, un concetto importante per chi lavora qui.
«Io mi sono innamorato di questo posto – confida Canella, con un curriculum che fa brillare gli occhi a leggere Biasetto, Le Calandre, il Noma di Copenaghen e l’Hotel Cipriani di Venezia – perché sono rimasto affascinato dalla stratificazione culturale e antropologica che è sedimentata nel territorio. Io e lo chef è come se ci fossimo riconosciuti: nonostante siamo di due generazioni diverse, ci accomuna il fatto che siamo cuochi nelle viscere». Non si erano mai incontrati prima di Ein Prosit 2023. I loro destini si sono incrociati – fatalità – proprio in cucina, anche se i due in quell’occasione non avevano lavorato insieme. A novembre Riccardo era già in Sicilia per conoscere meglio la realtà di Sultano ma il suo ingresso ufficiale risale allo scorso 15 febbraio. È stato allora che il trentanovenne ha saputo sorprendersi ancora allo sbocciare della primavera a bordo strada dove si possono trovare dai dieci ai venti tipi di fiori ed erbe diversi. «Durante le prime escursioni sono rimasto colpito dalle gemme di pino d’Aleppo, la cui unica riserva si trova nella provincia di Ragusa. Il pino, tra l’altro, è sempre stato qualcosa a me caro. Il mio primo lavoro in Test Kitchen al Noma l’ho avuto grazie a delle ricerche che ho condotto proprio su questa specie. Allora mi sono detto: “Perché non proviamo a fare un’infusione per un gelato?”. Il giorno dopo, alle sei e mezza del mattino, eravamo a raccogliere le gemme con lo chef perché fioriscono solo in due settimane all’anno». Ecco spiegata l’origine di Venere, il dessert presentato sotto forma di quenelle come fosse una valva di una conchiglia, accompagnato da un sorbetto di ostrica e una panna montata dal sapore leggermente erborinato per via del formaggio tumazzu. È a questo punto che entrambi si sono messi a nudo e hanno perforato l’ingrediente (basti pensare all’etimologia latina della parola, “entrare”), un processo di conoscenza che «è già nel mio Dna – ribadisce il cuoco padovano – ma, in tutti i posti in cui ho lavorato, non ho mai trovato così tanta identità e biodiversità». Trasgressivamente iodata è pure la Caprese di cuore: pomodoro cuore di bue, glassa di pomodoro ai lamponi, cuore di tonno rosso del Mediterraneo grattugiato, scampo e curry Sultano. Cosa manca? Il formaggio, sostituito dal crostaceo e dalle sue note di mare.
Filo conduttore del menu è il pensiero citrico, segno particolare nella carta d’identità dello chef siciliano, che “si confronta con il mondo, spremendone i succhi, né dolci né amari”. «”Mi sento citrico” non vale solo a livello gustativo: è uno state of mind», chiarisce Canella. La presenza di agrumi in ogni piatto è oggettiva, ma questo progetto riguarda l’approccio alla materia. Del resto nella cucina di Sultano sono sempre esistite delle linee trasversali, in cui fosse presente un elemento detonatore e uno catalizzatore: senza l’uno o l’altro il piatto diventa nullo. «Questo concetto è evidente nel Triscele: qui il catalizzatore non è quello che c’è già (quindi frutti di mare e ricciola, nda) ma è il liquido che viene versato dopo, l’acqua di melone affumicato. Quello è l’elemento che unisce. Lo stesso avviene nella salsa taratatà di alici che nasce come crocevia della mia vita: il catalizzatore lì è la carota, senza il piatto sarebbe un’altra cosa». Per chi avesse nostalgia di questo condimento per la pasta, nato dalla collaborazione con la famiglia Testa, è possibile acquistarlo nel vasetto da 180 grammi sullo shop online o tra gli scaffali de I Banchi.
La complicità tra Sultano e Canella si coltiva giorno dopo giorno nel giardino privato del cuoco cinquantenne dove si trovano persino i fiori di aloe vera (se non ne avete mai visto uno sono di colore rosso e hanno un sapore quasi speziato): «Lo chef ha sambuco, nespola giapponese, arance, limoni, mandarini – sorride Canella mentre comincia questo elenco –, con i fiori di zagara abbiamo fatto i capperi. Ci stiamo davvero divertendo. Il cuoco è un gran coach: spero di essere come lui più avanti». Al contrario, Sultano non ha avuto nessun mentore: «Lo sono direttamente diventato – ironizza –. È vero, a me è mancato un maestro, come non ho avuto un padre. Naturalmente ho colmato le mie lacune, perché non si può evolvere in assenza della tecnica che, nella mia visione, è sempre stata al servizio di un grande contenuto, la Sicilia, senza mai sovrastarlo».