sciacchetrà liguria

Vigne vista mare: quel fiero Sciacchetrà

Viticoltura eroica sui “brutali pendii” delle Cinque Terre

“Quel fiero sciacchetrà che si pigia nelle cinque pampino terre”: un vino che è une vertigine, un affronto poetico e brutale, così come il contesto da cui proviene. Cinque borghi di pescatori incastonati nella roccia, Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore, compresi tra Punta Mesco e Punta di Montenero e sormontati da crinali terrazzati con fatica, con intelligenza, al cospetto di vette che si spingono fino agli ottocento metri di altitudine. E di un mare che appare altrettanto verticale, quasi uno specchio, per uno dei paesaggi più belli e caratteristici del mondo. Eccole le Cinque Terre, con i loro ibridi profili che si reggono sul lavoro dell’uomo: qua antropizzazione vuol dire economia ma anche sopravvivenza, per l’una e l’altra parte, con quei muretti a secco che sorreggono l’economia quanto la roccia dei dirupi scandendola in cian, ovvero in piani, gradoni, dove l’olivo e la vite affondano la radice e regalano il loro frutto sofferto, dunque buonissimo.

Dorato, ambrato, cangiante di luce solare, lo Sciacchetrà è il passito simbolo di queste terre, coi suoi inconfondibili profumi di miele, di frutta secca, di agrumi canditi ma anche di macchia, erbe, tramonti sul mare; l’ingresso in bocca è poderoso, il primo sorso indimenticabile: ricco, pieno, armonico ma proteiforme, ha un raro equilibrio tra dolcezza e sapidità, dovremmo dire salinità, con una delicata venatura tannica che poi traghetta al morbido retrogusto di mandorla, persistente e ardente nella sua freschezza. Uno dei vini più difficili da fare, ma anche da raccontare.

Il nome sembra prenderlo dall’aramaico shekar, utilizzato per le bevande “da offrire a Dio”, ma in dialetto suona piuttosto come “sciac”, schiaccia, e “tra”, ovvero tira via l’uva e accudiscila nella botte, per attenderla nel tempo. La varietà protagonista è l’autoctona bosco, a cui si aggiungono albarola e vermentino, raccolte in bilico sui crinali. Ogni grappolo è un tesoro: oggi una monorotaia solca i vigneti ed è la prima alleata nella vendemmia ma si usano teleferiche, imbarcazioni, piccoli mezzi a motore e soprattutto gambe, braccia, cuore, tutto ciò che può aiutare a convogliare le uve in cantina. In zone areate, lontano dal sole, rimangono ad appassire per almeno settanta giorni. Dopo il primo di novembre i grappoli vengono selezionati, pigiati, il mosto fermenta a contatto con bucce e vinaccioli, talvolta anche coi raspi, per altre tre settimane almeno: questo processo è parte della sua identità “salmastra” e lo smarca dalla massa dei passiti italiani, sovente vinificati in bianco. Affinato perlopiù in piccole botti di legno, ha rese minime che rasentano la follia, in media attorno al 25%, e la sua commercializzazione avviene soltanto in bottiglie da 375 millilitri, lunghe e sottili: le uniche atte a contenere “quel fiero Sciacchetrà” tanto caro a Gabriele D’Annunzio.

La storia moderna di questo vino è legata alla Cantina della Cooperativa Agricoltura delle Cinque Terre, con sede nella frazione di Manarola: per i singoli vignaioli un riferimento simile è come il vascello che resiste alle intemperie (anche in senso letterale, si veda la terribile alluvione del 2011), indispensabile per sé stessi e per le costanti cure che il territorio reclama: se trascurato, crolla tutto a mare. Si aggiunga una sana vocazione della Cooperativa alla crescita, alla ricerca, al rapporto qualità/prezzo del prodotto finale (che rappresenta il 50% dell’offerta totale), per ottenere uno Sciacchetrà accessibile quanto autentico, godibile, sublime viatico per approcciare il cammino.

Al modello del conferimento guarda anche la cantina Sassarini, nata a Monterosso al Mare per mano di Natale Sassarini nel 1968, ben cinque anni prima dell’ottenimento della Doc, e oggi guidata dal figlio Giancarlo. Negli ultimi tempi si è investito molto sui vigneti per uno Sciacchetrà in grado di assolvere anche al suo ruolo popolano, quello del vino buono per le feste, nel tempo mistificato dalle distorsioni del mercato.

L’azienda agricola Possa prende invece nome da Possaitara, la valle di Riomaggiore in cui Heydi Bonanini ha cominciato a recuperare piccoli appezzamenti a picco sul mare, devastati dalle frane e dall’incuria. Le prime uve le vinificò nella limitrofa cantina avviata da Elio Altare per la sua Campogrande, avamposto ligure del vignaiolo di langa che l’ultimo Sciacchetrà lo ha proposto nel 2011 (ma ci aspettiamo sorprese): passiti identitari, caleidoscopici, che rinnovano l’emozione a ogni assaggio.

A Vernazza le vigne dei “prof” Lise Bertram e Bartolomeo Lercari sono l’anfiteatro marittimo che dà vita a Cheo, unica azienda vinicola del borgo; la sfida del loro Sciacchetrà si dice vinta in partenza se le uve sono accudite, selezionate, appassite nei luoghi e coi tempi giusti: un vino che “sa farsi da solo” per una versione eclettica, mai stucchevole, in cui prepotente torna la voce del mare. Tra le tessere imprescindibili del mosaico citiamo Arrigoni, col suo coriaceo secolo di storia, nonché la cantina del Vin Bun di Luciano Capellini a Volastra, quella di Forlini Cappellini a Manarola, la giovane Vètua di Sebastiano Catania a Monterosso.

Ma sempre a Monterosso piace chiudere con la storia che avrebbe potuto aprire il viaggio, se è vero che il vino delle Cinque Terre è femmina da sempre: la memoria racconta che gli uomini andavano in mare, mentre le donne restavano a occuparsi della terra, degli orti, degli ulivi, delle vigne e delle cantine. Marzia Raggi ha battezzato la sua azienda agricola A Scià, ovvero La Signora, per un passito presentato anche in versione Riserva, caldo, materico e “profondamente sensuale” se vogliamo attenerci a D’Annunzio, “essenza di tutte le ebbrezze dionisiache” se invece intendiamo passare a Giosuè Carducci; mentre il buon Giovanni Pascoli, per non sbagliare, si sarebbe assicurato qualche bottiglia “in nome della letteratura italiana”.

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