È una prova di forza quella che ogni anno mette in fila migliaia di bottiglie per presentare in anteprima lo sfaccettato universo enoico della Toscana. Sia pure con l’assenza di Brunello di Montalcino e Bolgheri – denominazioni concentrate su momenti indipendenti di presentazione dell’annata – la grande e inclusiva cerimonia delle Anteprime di Toscana diventa infatti l’occasione da non perdere per fare il punto sullo stato di salute di una regione-chiave per il mercato del vino italiano. A dimostrarlo sono i numeri da record registrati nel 2022 dal vino made in Tuscany, con l’export a trainare un comparto composto da poco meno di 12.500 aziende vitivinicole impegnate a coltivare più di 60mila ettari vitati, per una produzione che nell’ultima campagna ha raggiunto i 2,3 milioni di ettolitri di vino. Un “colosso” che ha la struttura frammentata di un mosaico – perché tra grandi tenute storiche e piccoli vigneron la media fa 5 ettari per azienda – eppure mette in campo la potenza commerciale di una multinazionale. Secondo le stime Ismea – presentate in apertura di PrimAnteprima– gli incassi riferibili alle esportazioni delle Dop toscane parlano di oltre 690 milioni di euro (+7%), anche a fronte di una flessione in volumi (-3%), in linea con le altre Dop nazionali. Gli States da soli rappresentano oltre un terzo della domanda (il 34% in volume e il 38% in valore), seguiti da Germania e Canada. Meno brillante invece il mercato interno, dato che nel 2022 le Dop toscane hanno registrato una riduzione del 10,6% in termini di volume. Oltre ai numeri, c’è poi il vino nel calice. E qui si aprono riflessioni ampie su un affresco non sempre perfetto, ma sicuramente in evoluzione.
Chianti affaticati, Morellino di Scansano in ripresa
Come ogni anno, non è facile affrontare in anteprima il Chianti Docg, così come le sottozone. E il limite non sta necessariamente nel calice, perché permettendo al tempo di lavorare (almeno un minimo) si potrebbe dare modo ad alcune etichette di esprimere le peculiarità di un vino che racconta territorio e storia. La scelta di uscire sul mercato con una velocità che nemmeno i bianchi cercano più – e dunque di presentare in anteprima nientemeno che l’annata 2022 – finisce invece per penalizzare vini che (in generale) non sono pensati per valorizzare la complessità, ma che assaggiati dalla botte sono appena delle crisalidi sottosviluppate. Il panorama dei Chianti Docg 2022 assaggiati alla Fortezza da Basso di Firenze è dunque dominato dai campioni di botte, tra i quali dominano trasversalmente scompostezze o eccessi di legno. Tra i calici più leggibili si possono citare Cantina Gentili, Castello di Poppiano, Fattoria l’Arco e Fattoria Piccaratico, Tenuta San Vito in Fior di Selva e il bio della Vecchia Cantina di Montepulciano.
Va meglio con i Chianti Superiore 2021, tra i quali spiccano Colognole, Villa Saletta, Fattoria Fibbiano e Castello del Trebbio (ma per gli ultimi due lo scarto tra quello che il vino è oggi e quello che sarà, stando all’esperienza passata, è davvero netto). Guardando alle sottozone, convince il Chianti Montalbano di Tenuta di Artimino e il Colli Aretini di Mannucci Droandi, mentre faticano davvero i Chianti Colli Fiorentini, i Colli Senesi, i Montespertoli e – inaspettatamente, dopo l’ottima prova dello scorso anno – anche i Chianti Rufina. Eppure è sufficiente spostare in avanti le lancette dell’orologio e assaggiare i vini dopo qualche mese (meglio se qualche anno) in bottiglia per scoprire espressioni interessanti dei terroir e dei varietali. Lo scenario migliora tra i Chianti Riserva 2020, soprattutto nella sottozona Rufina, ma ancora una volta meglio dare tempo al tempo. Sembra invece in evoluzione una denominazione che, per troppo tempo, si è auto-confinata nella fascia basic dei consumi di rossi toscani. Il Morellino di Scansano risulta infatti più brillante e dinamico nei calici, con qualche azienda capace di convincere (nonostante le prove di botte). Si segnalano nel calice i Morellino 2022 di Alberto Motta, Fattoria le Pupille, Provveditore, Morisfarms e Terenzi. Bene i Morellino Riserva 2020 di Bruni, Col di Bacche, Fattoria le Pupille e La Selva. Anche in terra di Scansano vale la prova del tempo, perché assaggiare il 2021 di Bruni, il 2019 di Provveditore, il Riserva 2019 di Col di Bacche è tutta un’altra storia.
La prova brillante del Gallo Nero
Parlando di prova di forza, il Chianti Classico ha saputo allestire alla Leopolda un’autentica celebrazione della denominazione, con un approfondimento (per italiani e soprattutto stranieri) su quella complessa focalizzazione sul terroir che passa sotto il nome di UGA, ovvero Unità Geografica Aggiuntiva. Al di là dell’abilità della squadra guidata dal presidente Giovanni Manetti nel preparare una cerimonia anche visivamente d’impatto, è però quello che si scopre nei calici a dimostrare il grande lavoro che i produttori del Gallo Nero hanno saputo fare per affinare vini sempre più complessi, capaci di profondità senza pesantezze, giocati sull’equilibrio e (finalmente) con rari eccessi di legno.
Pur giovanissimi, i Chianti Classico 2021 hanno dunque mostrato nerbo e acidità, nonostante una certa tendenza a spingere sulla concentrazione. Tra i Sangiovese in purezza si segnalano per equilibrio Castello di Albola, Castello La Leccia, Castello Vicchiomaggio, Monte Bernardi-Retromarcia, il Sacello di Arillo in Terrabianca e Terra di Seta; tra i blend spiccano invece Capraia, Castello di Meleto, Castello di Volpaia, La Montanina, Triacca, ma soprattutto un sobrio e molto equilibrato Brolio di casa Ricasoli. Se chi ha presentato già il 2021 ha dovuto fare i conti con un’annata non facile, ha giocato invece di finezza chi ha portato in degustazione i Chianti Classico 2020. E tra i molti assaggi piacevoli si possono mettere in pole position Badia a Coltibuono, Fontodi con il Filetta di Lamole, Isole e Olena, Pasolini dall’Onda, mentre in seconda fila emergono Casale dello Spaviero, Castello di Radda, Felciano, La Sala del Torriano e Montefioralle.
Il 2020 ha permesso di godere anche tra i CC Riserva, perché si può dire che si cade in piedi (quasi) ovunque. Meritano una menzione per il gioco di tensione e profondità Brancaia, Castello di Meleto, il Novecento di Dievole, La Montanina e ancora l’ottimo equilibrio del Brolio Riserva di Ricasoli. Necessitano di più tempo in bottiglia per integrare meglio il legno, ma preannunciano belle soddisfazioni, Castello di Albola, Castello di Volpaia, Rocca delle Macie e Il Grigio di San Felice, così come i Riserva 2019 di Banfi, Castello di Ama e Lamole di Lamole.
Scendendo fino alla Riserva 2018, da non perdere le bottiglie di Badia a Coltibuono. Qualche delusione viene invece dai Gran Selezione 2020 e 2019. Si beve abbastanza bene, ma senza vero entusiasmo, fatta eccezione per i cru di Castello di Fonterutoli (il Badiòla 2020 su tutti, ma da nascondere in cantina) il Vigna del Sorbo 2020 di Fontodi, mentre tra i 2019 il Solatìo di Castello di Albola, il Vigna Bastignano di Conti Capponi, il Vigna Poggiarso di Castello di Meleto e il Coltassala di Castello di Volpaia.
Montepulciano è Nobile e sostenibile
In un territorio di straordinaria bellezza, l’anteprima del Nobile ha visto il consorzio concentrare la massima attenzione sulla sostenibilità, che in terra di Montepulciano non è nemmeno questione di scelte aziendali. È infatti la denominazione nel suo complesso ad aver intrapreso un percorso (lungimirante, anche in termini di mercato) che la porta a fare della filosofia green una bandiera comune. Questo corrisponde a un’esperienza nel calice tutto sommato positiva, con tannini ancora acerbi nella loro austerità e una bella acidità, che non impediscono però al Nobile 2020 di offrire già un sorso godibile. Tra i calici d’annata si segnalano l’eleganza ematica de Le Bertille, la profondità balsamica di Cantina Crociani, la ruggine levigata di Boscarelli, l’eleganza viva e polposa di La Berne, la pulizia di Tenuta Poggio alla Sala. Tra le annate precedenti, da segnalare Il Massaro 2019 di D&D, il godibile Podere Casanova 2019, il vegetale di Guidotti 2019, l’elegante Canneto Riserva 2018. Meno convincenti i Nobile di Montepulciano Riserva 2019, forse ancora troppo contratti. Si fanno notare il Briareo di Vecchia Cantina di Montepulciano e soprattutto la tensione flessuosa della Poiana de Il Molinaccio.
Timeless Vernaccia, ma davvero
Tra tanti rossi di portata regale, la Vernaccia di San Gimignano è la regina bianca incontrastata. Come per i rossi, ma forse ancor più convintamente, va detto e ribadito che questo grande vitigno ha poco senso nel calice a stretto giro dalla vendemmia, mentre il tempo rende giustizia a vini di una tensione splendida che reggono (e probabilmente vincono) il confronto con i grandi bianchi del mondo. Lo dimostra la degustazione dell’annata 2022, che permette di leggere in prospettiva vini tutt’altro che pronti. Tra i calici più convincenti Casa delle Vacche, Collemucioli, Collina dei Venti, Fattorie Melini, Palagetto, Poderi del Paradiso, Tenuta Le Calcinaie e soprattutto Il Colombaio di Santa Chiara. Diventa invece difficile scegliere tra le Vernaccia che sono davvero l’anteprima da godere, ovvero gli assaggi dell’annata 2021. È sufficiente l’attesa di un anno per consentire a questi vini di assumere struttura, di stemperare l’eccesso di acidità verso una maggiore complessità, con sentori di erbe, miele, zafferano, ma anche grafite e idrocarburi. Tra i numerosi ottimi calici, primi inter pares spiccano Capellasantandrea, Fattoria di Fugnano, il Colombaio di Santa Chiara, Vagnoni, Il Palagione, Palagetto, Panizzi e l’inconfondibile Montenidoli. Giusto per confermare la necessità di tempo, l’assaggio in verticale di una dozzina di Vernaccia di San Gimignano proposto dal consorzio ha dimostrato la longevità assoluta dei vini. Non solo le Vernaccia Riserva (come il Campo della Pieve 2018 di Il Colombaio di Santa Chiara e il Fiora 2018 di Fornacelle, il Signorina Vittoria 2011 di Tollena), ma anche le Vernaccia “base” che evolvono in maniera straordinaria, come il Santa Margerita 2014 di Panizzi, Hydra 2007 de Il Palagione e l’originalissimo Carato di Montenidoli 1997.
La Toscana “altra” che vince con gli autoctoni
La chiamano “Altra Toscana” e sotto questa sigla a rischio di banalizzazione si nascondono denominazioni dal carattere forte, piccole (anche se qualcuno potrebbe obiettare sulle dimensioni della Maremma) eppure identitarie. Facciamo i nomi: Carmignano e Barco Reale, Chianti Rufina, Colline Lucchesi, Cortona, Maremma Toscana, Montecucco e Montecucco Sangiovese, Orcia, Suvereto e Val di Cornia, Terre di Casole, Terre di Pisa, Toscana, Valdarno di Sopra. In una sola giornata – purtroppo l’ultima delle Anteprime – si concentra un numero enorme di etichette, molto differenti tra loro per uvaggio, stile, terroir. Che fare? Seguire la linea dei Vermentino della costa? Scoprire che lingua parlano i Sangiovese di Maremma o dell’Orcia? O gettarsi a capofitto sul mare magnum degli internazionali, dal Syrah di Cortona ai tagli bordolesi di Suvereto e Val di Cornia Girovagando di calice in calice, si scoprono Vermentino sapidi e fruttati, Viogner eleganti che respirano il mare, ma anche i Syrah carnosi e pepati di Cantina Canaio, Baldetti, La Braccesca e Stefano Amerighi. Tra i Sangiovese il Montecucco batte tutti con l’annata 2019 – da scoprire Montenero, Poggio l’Apparita – mentre tra le Riserve spiccano Basile e Amiata. Saltabeccando tra gli assaggi di rosso frenetici, spiccano il Carmignano Rigoccioli 2022 di Tenuta Ceri, il Chianti Rufina S. Giuliano 2021 di Marchesi Gondi, il Rufina Riserva 2018 di Castello del Trebbio; nell’Orcia Doc il Sesterzo 2019 di Poggio Grande, Sassodiluna 2019 di Sassodisole e soprattutto Atrivm Riserva 2017; dalle terre di Pisa il Ceppatella 2019 (troppo giovane) di Fattoria Fibbiano e l’ottimo Opera in Rosso 2019 di Podere La Chiesa. E ancora in Valdarno il Petruna 2020 de Il Borro, sulle Colline Lucchesi il Villa Santo Stefano 2019, scendendo verso il mare il Ciparisso 2018 de La Fralluca, Okenio 2018 di Terradonnà. Scivolando in Maremma vincono gli autoctoni, con il Ciliegiolo 2021 di Le Vigne e l’Albarese 2020 della Cantina Vini di Maremma in evidenza.